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Consigli per gli acquisti di Natale

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Finora, per evitare i conflitti sindacali nella piccola e ricca isola di Singapore,  i datori di lavoro cercavano di risolvere il problema con le maestranze prima di farlo diventare di dominio pubblico. Ma la settimana scorsa, il caso degli autisti cinesi degli autobus in sciopero per le loro dure condizioni di vita e lavoro, ha scoperchiato una pentola da tempo in ebollizione. Una di quelle pentole dove cuociono i destini comuni oltre i ristretti confini del Paese coinvolto.

Poliziotti a guardia degli autisi cinesi in sciopero a Singapore

Poliziotti a guardia degli autisi cinesi in sciopero a Singapore

E’ successo dopo 26 anni dall’ultima protesta pubblica contro il monolitico regime di tecnocrati e tycoon delle potenti famiglie che fondarono negli anni ‘50 la moderna Singapore degli affari. Basandosi sulla legge che vieta il blocco di ogni attività di “pubblica utilità” per qualunque motivo, le autorità cittadine hanno denunciato 171 autisti di un’azienda semipubbllica di trasporti e portato in giudizio, tra gli altri, il capo degli scioperanti che ha raccolto proseliti cinesi via twitter e facebook  invitandoli alla serrata, mentre una trentina di connazionali sono già stati deportati in Cina. Altri sono stati arrestati e in attesa di processo.

Gli autisti, immigrati in cerca di fortuna come fecero i primi pionieri dell’attuale piccolo impero finanziario e manifatturiero dell’Isola, protestavano per i salari troppo bassi (“inferiori addirittura a quelli dei colleghi malesi”, hanno fatto notare) oltre che per le condizioni di vita e di orario di lavoro. “Siamo costretti a stare nei dormitori assegnati dalla compagnia di trasporti SMRT– denunciavano i manifestanti – dove i nostri materassi sono sempre infestati di cimici”.

Il loro ghetto si chiama Woodlands, nell’area industriale, diventato il teatro della prima protesta dall’inizio del boom (oggi rallentato) dell’Isola. Come una scintilla la rivolta è partita attraverso Baidu, il Google cinese, e l’adesione allo sciopero è stata tanto massiccia da sorprendere tutti, per primi gli abitudinari abitanti di un’Isola-Stato dove ogni manifestazione deve essere annunciata 14 giorni prima e confinata in un’area circoscritta della metropoli.

Passeggeri in attesa del bus a Singapore

Passeggeri in attesa del bus a Singapore

Ma la notizia del blocco dei mezzi pubblici di superfice, usati da decine di migliaia di passeggeri, ha avuto una forte ripercussione, oltre che nell’Isola, anche sui social network della madrepatria. Gli stessi esponenti governativi cinesi hanno protestato ufficialmente per il trattamento inumano e giudiziariamente severo riservato ai connazionali in sciopero, provenienti dalle regioni più povere della Cina ed emigrati nell’indipendente Singapore per mantenere le famiglie.

Le preoccupazioni sono state espresse al governo locale da una nota dell’ambasciata cinese, che ha sollevato a sua volta il commento tagliente del leader delle Confederazioni sindacali di Hong Kong, altra ricca isola cinese “autonoma” ma di fatto controllata da Pechino. “E’ ironico che a chiedere il rispetto dei diritti sindacali a Singapore – ha scritto il sindacalista – sia il governo cinese dove non esiste libertà né rispetto per gli stessi diritti”.

La iniziativa diplomatica – secondo la stampa – è comunque servita quantomeno a far disinfettare i dormitori, specchio di una situazione sociale ed economica al limite del paradosso. Infatti i residenti ufficiali dell’isola, poco più di quattro milioni, discendenti diretti dei primi emigrati dal Sud Ovest cinese fuggiti con l’arrivo del comunismo, vivono e in genere prosperano proprio grazie alla forza lavoro composta da un milione e 300mila immigrati.

Questi sono giunti – oltre che dalla Cina – dal Bangladesh, dall’India, dalla Malesia e altri paesi dell’area. Vengono considerati gente di serie B e sono pagati in genere la metà o un terzo rispetto ai locali, ma restano necessari al funzionamento dell’Isola Stato. Non a caso ogni tentativo di restringere il numero di visti di immigrazione (una proposta di legge cerca ancora di limitare l’accesso agli stranieri sulla base del reddito percepito) è finora fallito, mentre le leggi per garantire salari minimi ai dipendenti rischiano di avere conseguenze indesiderate. Molti datori di lavoro minacciano infatti di chiudere la loro azienda o trasferirla in Paesi a più buon mercato delle braccia.

Un'operaia mostra un prodotto Walmart nella fabbrica incendiata con 120 vittime vicino Dhaka

Un'operaia mostra un prodotto Walmart nella fabbrica incendiata con 120 vittime vicino Dhaka

Va da sé che i luoghi d’origine degli stessi immigrati sono quelli che offrono le migliori occasioni di fare affari, grazie alle possibilità di sfruttamento della manodopera. Ma di certo le aziende di Singapore trovano già in Paesi come il Bangladesh o la Cambogia una agguerritta concorrenza internazionale.

Quello del costo del lavoro è oggi un problema comune a parecchi Paesi asiatici industrializzati come lo era stato per europei e americani all’inizio del movimento sindacale. E’ noto infatti che il motivo del primo successo economico cinese degli ultimi due decenni fu la competiività dei prodotti offerti a prezzi bassi grazie a una manodopera mansueta e a buon mercato.

Allo stesso modo, gli operai dei Paesi poveri dell’Asia hanno fatto la fortuna di numerose aziende tessili internazionali – comprese le italiane – non solo per via dei salari sotto al minimo della decenza, ma anche per i metodi da schiavisti utilizzati dai rappresentanti dei padroni sul posto. Nelle fabbriche di questi Paesi, infatti, si lavora spesso a ciclo continuo e le porte d’ingresso si aprono solo all’inizio e alla fine di lunghi turni.

Uno degli incidenti più gravi delle cronache di questi ultimi anni è accaduto in Bangladesh in un’area industriale alle porte della capitale Dhaka pochi giorni fa, il 24 novembre. Oltre 120 persone, quasi tutte donne, sono morte nell’incendio di una fabbrica chiamata Tazreen Fashion che produceva per grandi distribuzioni come Walmart, Disney, Dickies, il celebre rapper Sean Combs e Sears. Si è scoperto che le operaie, pagate 37 dollari al mese, meno di un euro al giorno, avevano cercato di fuggire dalle porte per scampare al fuoco ma i capetti dell’azienda hanno sbarrato i cancelli con dei pali costringendole a lanciarsi dalle finestre dei piani più alti.

I tre capetti arrestati per aver sbarrato le porte della fabbrica in fiamme

I tre capetti arrestati per aver sbarrato le porte della fabbrica in fiamme

Tre di loro – magazziniere, amministratore, responsabile della sicurezza – sono stati arrestati e condannati, ma i padroni della fabbrica sono ancora liberi, e continuano a ricevere ordini dai clienti internazionali che conoscono benissimo i motivi di tragedie come questa.

Ma per tornare alla Cina, è qui – nella Madrepatria, precisamente a  Shantou nel Guangdong, uno dei luoghi d’origine dei primi emigrati cinesi a Singapore – che si è verificato l’ultimo degli incendi legati direttamente alle condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti. Nel rogo di una fabbrica di mutande sono morte martedì scorso 14 lavoratrici, tutte tra i 18 e i 20 anni, stavolta non per colpa delle porte bloccate, ma per mano di un altro dipendente, un uomo che aveva deciso di vendicarsi con una tanica incendiaria per il mancato pagamento di una cifra attorno agli 80 dollari che l’azienda gli doveva da 3 anni.

Intervistato da una televisione dopo che la polizia lo ha ammanettato, l’incendiario ha detto di non aver affatto riflettuto sulle conseguenze che avrebbe avuto il suo gesto di vendetta per le povere ex colleghe carbonizzate. “Ero talmente arrabbiato per il torto subito dall’azienda che non capivo cosa stavo facendo”.

Operaie di una fabbrica tessile cambogiana

Operaie di una fabbrica tessile cambogiana

Forse, allo stesso modo, non avevano riflettuto sulle conseguenze del loro gesto nemmeno i dipendenti della fabbrica bengalese che hanno sbarrato le porte agli operai in fuga. E forse non hanno riflettuto sulla gravità dei mancati controlli di sicurezza nemmeno i capi dei governi che proteggono gli interessi degli industriali senza scrupoli, titolari di aziende tessili – ma non solo – che cercano di risparmiare, oltre che sui salari, anche su ogni voce di spesa.

Noi, i consumatori, siamo solo l’ultimo anello della catena di blande responsabilità che certi codici estremi chiamerebbero “acquisto incauto”. Certo siamo i meno colpevoli, ma faremmo bene ad informarci un po’ di più su cio’ che acquistiamo. Ricordiamo ancora l’impatto mediatico della foto di alcune modelle che qualche anno fa sfilarono con le pellicce ancora grondanti del sangue dell’animale scuoiato. Fatte le debite differenze, si potrebbe quantomeno immaginare quanto costa davvero una maglietta prodotta con metodi schiavisti, e cominciare a eliminare qualche capo d’abbigliamento delle aziende sospette dalla lista dei regali di Natale.


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